Di notte gli uomini tristi muoiono, Leà. Mettono una pistola in mano all’uomo nero e si fanno saltare le cervella. L’uomo nero è sotto al letto: si tocca sempre il fondo prima di morire. R.I.P. R.I.P. R.I.P. R.I.P. R.I.P. R.I.P. Ripeti le ultime parole che non hai detto, piccola mia. Quelle in cui sostieni di amarmi alla follia. Anch’io ti amo, lo sai. Toh, prendi il ritornello di “Blue Monday”e corri sotto ai raggi del Sole a farti un vestito verde. Indosserò sneakers verdi, io. Così il mondo saprà che stiamo assieme, noi due. Andiamo a passeggiare in un supermercato di periferia, dai. Dove il Sole non tramonta mai: luci al neon fino alle 22:00. Tre barattoli di Campbell’s Soup e un pacco di preservativi alla menta: la lista della spesa è pronta. E la dispensa è vuota. Oggi più di ieri. Ieri come me. Come cazzo fai a non capire che morirò di fame se non vieni anche tu? Il mondo è troppo lontano per me. Non mi arriva la mano al bancone del latte, se tu non ci sei. Non mi arriva la mano al bancone del latte, giuro. Da solo, non arrivo da nessuna parte. Sono un patetico stronzo col culo attaccato all’ultima ruota del carro. Metto in fila insuccessi neanche stessi giocando a filetto. Eppure vorrei essere un re. Eppure vorrei essere Dio. Nel dubbio, lucido una corona di spine. Mi siedo su un trono di Ave Maria e fumo la mia ultima sigaretta.
sabato 26 marzo 2011
All’improvviso, mi accorsi che le mie braccia non erano ali e cominciai a passare le notti sopra ai tetti, sputtanando le stelle. “Questo mondo si ferma sempre. Questa meraviglia finisce sempre. Questi fiori moriranno sempre”. Bloodflowers. Non fanno più canzoni tanto belle, oggi. Senti il luccichio del grande Smith, quando l’ascolti. Alla fermata del 112 la tengo nelle orecchie. Le clacsonate dei tram si intingono nelle cuffie del mio s545 e la portano via, un poco. Ma lei c’è. Pure quando il treno Montparnasse-Batignolles attacca a frignare, rimane. Fidato Robert Smith, è sempre con me. Non fugge via, lasciandomi il culo inzuppato nella formaldeide. Sono infiammabile, adesso. Ed esplosivo. “Leà, mi sento l’ultima bestia del cielo senza di te”, le dissi. Eppure, se ne andò. E rimasi solo. Solosolosolosolosolo. Annego in un bicchiere di Diluvio universale, ora. Mi ritaglio la lingua, facendo origami delle urla che tacciò. E, steso sul nonvorreiesseremestesso, fumo la mia ultima sigaretta.
C’è un Baccanale nella mia testa, Leà. Ti invito. Dà pure la mia offerta in pasto ai cani, sono in guerra con Bacco: il fegato a macero nel suo piscio divino era la mia preghiera per lui, non ha risposto. Penso: un giorno, hai detto “Non esiste cuore tanto grande da sopportare le sofferenze altrui in eterno. Incontra cuori di media statura e gioisci, sono il meglio che ti possa capitare”. Quello che dici fa venire voglia di recitare preghiere, Leà. Quelle in cui Amen fa rima con Prosit. Beviamo vitamine russe stesi sul pavimento del cesso. Io penso a me, tu a te. Come è sempre stato. Alle volte, mi chiedo perché mi manchi. Non ci sei mai stata, in fondo. Pensare che non ci sarai più, non dovrebbe fare alcuna differenza. Eppure, mi sento come se avessi perso l’unica cosa che avrebbe potuto farmi felice. Allo specchio, il mio autoritratto sbronzo dice che morirò vecchio e solo. In vino veritas, rispondo io. Non tacciò, ma acconsento. Struscio la lampada del comò ed esprimo il terzo desiderio ( 3. Leà, voglio un letto rotondo. Dove scoparti senza avere paura degli angoli). Poi, mi stendo e fumo la mia ultima sigaretta.
Non mi chiamo Zeno, questa non è la mia ultima sigaretta.
domenica 20 marzo 2011
VERTIGINE
Seguo il filo conduttore,
dissemino sassolini dietro di me.
La mia testa è un labirinto,
la mia vita è un campo minato.
Mi trovo ancora una volta sul filo,
così vicino al ciglio,
pronto a cadere dall'altra parte.
Non c'è bellezza senza pericolo.
Senza pericolo non c'è bellezza.
So solo che rimango ancora qui.
Sul ciglio.
Sul ciglio.
So solo che, probabilmente, sono sempre stato qui.
Sul ciglio.
E all’improvviso mi rendo conto che le braccia non sono ali.
E bevo bevande spirituali,
finché l'ultima particella del mio corpo non smetterà di muoversi.
Questa si che è l’altezza giusta per conversazioni divine.
Prosit. Amen.
martedì 15 marzo 2011
RUE DE LA PAIX
Mark Renaud c'aveva pure creduto, quando gli era stato detto. Era uscito dall'ufficio del caporale Picard con le gengive sporche di riso e riconoscenza. "La guerra è finita", si era messo a urlare. Il sedere a monte e la lingua a valle, a spargere la voce. Trenta secondi e quella canna rattoppata di Rue des Mineurs aveva preso a fare l'eco. In bocca a Rue Midi, la cosa era diventata un poco come "L'incubo è finito". Più o meno lo stesso, si sapeva di che incubo si stava a parlare. Tinte le orecchie nella buona nuova, Helene Gaillard, aveva preso a snocciolare paternostri. Un Padre Nostro, un Ave Maria e per tutti un così sia. Pierre Leroux, nato nel '18, fatto adultero nel '19, dopo quattro saltelli di gioia con la moglie, s'era infilato in casa di Marie Aubert, a fare un altro tipo di saltelli. Sempre di gioia. Nicolas Dupont, tuttofare sempredafare, era corso al gazzettino Lefevbre a pucciare la diceria nell'inchiostro. Dupont faceva le cose con un giro di testa del tipo "Chiudo la bara, prima che ci sia il morto", così da risparmiar tempo. L'esatto contrario di Robert Fournier, uno sfaccendato dall'alito di Calvados. Che canticchiava, con le R in grassetto, Sugar Sugar Sugar, nottegiorno-giornonotte. Per lui, la notizia era stata un motivo come un altro per buttar giù un poco di brandy. "Le cattive novelle vanno affogate, le buone nuove vanno tenute a galla", a pensarla così, non si tiene mai la bocca asciutta. Il vecchio Michel Lemaire, robivecchi storico di Montmarte, era l'unico a non rallegrarsi troppo. "La guerra si ferma, ma non finisce", diceva. E, forse, era l'unico a vedere le cose come stavano.
http://www.youtube.com/watch?v=SFaGFUPJSF0
http://www.youtube.com/watch?v=SFaGFUPJSF0
lunedì 7 marzo 2011
DO YOU LIVE IN A BELLE EPOQUE?
La radio di Madame Touriè, una Century 61 dal suono ruggine e imbratto, cantava Smells Like Teen Spirit. La voce, pure un poco artefatta, era quella del Cavaliere Paul: sette note e venti ricordi di gioventù. Io, affacciata di sbieco su rue Cherche Midi, lasciavo che il panificio Belle Epoque m’ingolfasse la vista. Lo guardavo cospargere di cemento e lievito madre l’orizzonte, mentre tiravo dentro il primo tabacco della giornata. Non so dire quanto pane servisse al quartiere, ma, stando alle misure di quel posto, nessuno avrebbe mangiato altro per anni. Mai visto un casermone tanto grande: tetto orizzontale e soffitto chilometrico. Una fabbrica del pane, direi. Senza il minimo romanticismo. Forse, era sciocco, da parte mia, stare a cercare del sentimento in una panetteria. Colpa dell’odore di pan au chocolat, probabilmente: mi rendeva melensa come poche cose. Il mondo è colmo d’amore sotto il cielo di Paris, pensavo. E sognavo quei piccoli forni 3x3 dove si fa fatica a entrare col sedere eretto. I filoni addosso alle baguette, le baguette addosso ai croissant, i croissant addosso alle tortine di mele. Tutto in un’unica stretta, neanche si trattasse d’un domino di farine. La gente vicina, vicina e i soffitti a portata di mano. Quelli sono posti fatti a dovere. L’uomo è una creatura da tetti bassi e mura strette, in fondo. Se non si sforzasse di raggiungere il Cielo, vivrebbe meglio sulla Terra.
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