martedì 30 novembre 2010

THE FOOLISH MAN


La pazzia è come una sbronza.
Con meno vomito e nessuno che ti aiuti a finire la bottiglia.

La stagione della Caccia era alle porte. Io e Teresa Laber -la figlia del pastore- ci tenevamo lontani da certe usanze: recitavamo preghiere per la salvezza delle povere creature di Dio, mentre succhiavamo bastoncini di liquirizia e stecche di tabacco, scambiandocene il sapore con le labbra. Passeggiavamo, seguendo i semafori di una Camden Road che -in quel periodo dell’anno- pareva un deserto di rena alternative: dimenticata da Dio, dalla Regina e -persino- dai pellegrini occhi a mandorla. Ci piaceva bighellonare tra i banchetti del Camden Market come trottole col singhiozzo,  con gli spasmi di Sid Vicious negli orecchi e i rigurgiti di Vivienne Westwood sotto ai giubbotti. Spendendo dieci sterline per un paio di Shieffield che non avremmo mai indossato e buttando un paio di penny per un vecchio stemma della marina risalente a chissà quando, appartenuto a chissà chi. Quel giorno, facemmo appena in tempo a fare qualche giro. Un paio di mezz’ore e ce ne corremmo via a gambe levate: le scapole a seminare Hampstead Heath e i piedi a battere contro il sedere di blue-jeans. Avevamo paura. In fondo, non eravamo altro che dei poveri cacasotto che s'addomesticavano con la minaccia di levare il candeggio alle mutande. Parevamo stare al mondo con la marcetta del maestro Luigino Ferri ficcata dentro agli scarponi da montagna: un passeggio in Do molli, se si stava lisci, e una corsa in La veloci, se il gioco s’arrischiava. Quando arrivammo a Bayswater , Igor Torvek aveva già occupato il tavolone di mezzo del Porchester. Stava seduto al centro del locale con la sua combriccola di spaccalegna: una dozzina d’omoni a muso aperto e gambe larghe che sfiatavano tabacco e liquori. Vedere le loro mani grinzose agitare i boccali vuotati sopra la testa fu un sollievo: ci avrebbero protetti. Tom Fool, il matto, stava venendo in Città.

giovedì 25 novembre 2010

THE CARNIVAL OF MISS(ED) PANDORA

Le avevano detto: ci stanno trentaquattro modi di fare del male, ma nessuno s’era preso la briga di dirle quale fosse il principale. Le avevano detto: ci sono quarantadue strade per riuscire a mentire, ma nessuno s’era preoccupato di dirle dove andassero a finire.
Il cielo di Town s’abbuffava d’ovatta in vista d’un temporale. Schiere di rondelle imbrunite brizzolavano le rasature quadrate degli edifici del centro, sassate d’acqua stagna ossidavano le cancellate d’alluminio. Kalumi camminava di corsa: stava in ritardo per il Carnevale. Quella mattina, in nome di tante altre.
Aprì il carillon.

Le avevano detto: ci stanno ventisei modi per confondere, ma nessuno s’era preso la briga di dirle che uno di questi è nascondere. Le avevano detto: ci sono novantatre strade per ingannare, ma nessuno s’era preoccupato di dirle come poterle evitare.
Quando Kalumi arrivò, il Carnevale era già iniziato. Dozzine di mascherine sfilavano già per le strade del centro. Non le restava altro da fare che stare a fissarle per un po’, provando a indovinare quale travestimento avessero su: un passatempo non troppo divertente, ma per nulla complicato. Da qualche tempo, aveva imparato a capire le persone.
Aprì il carillon.


Le avevano detto: ci stanno cinquantaquattro modi di deludere, ma nessuno s’era preso la briga di dirle che il peggiore è illudere. Le avevano detto: ci sono infinite strade per amare, ma nessuno s’era preoccupato di dirle come poterle incrociare.
Il temporale s’era sfogato. Le scheggete di pioggia s’erano conficcate a dovere nei tubi di sampietrini. A impalare le ultime gocce. Kalumi s’era girata la parata, tutta intera. Ci aveva camminato in mezzo con un piccolo arsenale: il vomito delle serate sbagliate nella bocca e un poco d’argilla nelle mani. Avrebbe potuto farci una maschera, con quella.
Chiuse il carillon.



domenica 21 novembre 2010

IL TESTAMENTO

Il quartiere dei becchini era un'astrusa terra di mezzo. Un bilancino col volto scuro e le carni stinte che oscillava tra occidente e Sol Levante senza prendere posto: un poco tra i vivi, un poco tra i morti. Senza fare torti. Le viuzzule erano tanto strette da parere mangiatoie per ratti, le tettoie così acute d'avere la faccia di mine arrotate. Di luce ce n'era poca: sputi di sole, sottili quanto spilli smilzi, riuscivano appena a scivolare lungo una casa senza infrangersi addosso alla dirimpettaia. Il becchino Perry Smith, in pensione da una manciata d'anni, stava contando le linee d'ombra sulla strada. Non aveva molto da fare. Non aveva molto da vivere. Il volto pieno di plissettature, la testa zeppa di memorie e il cuore affaticato. Era in quel periodo di tempo in cui si prende a vivere come una cicala: la vita può durare una ventina d'ore. Si passa gran parte del tempo a riflettere sulla propria fine. Non si è più su un diretto senza fermate, ma sopra un carrozzone zeppo di soste. In attesa della propria stazione d'arrivo.