La pazzia è come una sbronza.
Con meno vomito e nessuno che ti aiuti a finire la bottiglia.
La stagione della Caccia era alle porte. Io e Teresa Laber -la figlia del pastore- ci tenevamo lontani da certe usanze: recitavamo preghiere per la salvezza delle povere creature di Dio, mentre succhiavamo bastoncini di liquirizia e stecche di tabacco, scambiandocene il sapore con le labbra. Passeggiavamo, seguendo i semafori di una Camden Road che -in quel periodo dell’anno- pareva un deserto di rena alternative: dimenticata da Dio, dalla Regina e -persino- dai pellegrini occhi a mandorla. Ci piaceva bighellonare tra i banchetti del Camden Market come trottole col singhiozzo, con gli spasmi di Sid Vicious negli orecchi e i rigurgiti di Vivienne Westwood sotto ai giubbotti. Spendendo dieci sterline per un paio di Shieffield che non avremmo mai indossato e buttando un paio di penny per un vecchio stemma della marina risalente a chissà quando, appartenuto a chissà chi. Quel giorno, facemmo appena in tempo a fare qualche giro. Un paio di mezz’ore e ce ne corremmo via a gambe levate: le scapole a seminare Hampstead Heath e i piedi a battere contro il sedere di blue-jeans. Avevamo paura. In fondo, non eravamo altro che dei poveri cacasotto che s'addomesticavano con la minaccia di levare il candeggio alle mutande. Parevamo stare al mondo con la marcetta del maestro Luigino Ferri ficcata dentro agli scarponi da montagna: un passeggio in Do molli, se si stava lisci, e una corsa in La veloci, se il gioco s’arrischiava. Quando arrivammo a Bayswater , Igor Torvek aveva già occupato il tavolone di mezzo del Porchester. Stava seduto al centro del locale con la sua combriccola di spaccalegna: una dozzina d’omoni a muso aperto e gambe larghe che sfiatavano tabacco e liquori. Vedere le loro mani grinzose agitare i boccali vuotati sopra la testa fu un sollievo: ci avrebbero protetti. Tom Fool, il matto, stava venendo in Città.