La francesina era nata dal seme di Nessuno. Come un origami di placenta, senza razza e senza ceppo, cui la Divina Provvidenza aveva dato il nome di Sophie Dumas. Teneva due occhi azzurrognoli ad annacquare le gote paonazze e una manata di lentiggini scure a punteggiare le narici affilate. Era una ragazzetta carina, tutto sommato. Eccitante quanto un cherubino in lingerie monacale, ma graziosa. Monsieur de Sade, abituato a svezzare tiepide orfanelle, l'aveva presa con sè. L'avrebbe resa una donna, a suo dire. Maliziosa e provocante quanto le sue concubine: altalene di peccato e pulizia. Femmine pronte a indossare sottane trasparenti, ma non a sbottonarle. La piccola Sophie sarebbe diventata una di loro. Una delle stars del Cabaret des Suicides. Il Cabaret des Suicides era un luogo curioso: un potpourrì di sauvignon, malinconia e profusioni spermatiche. Ficcato in un anfratto della Paris dabbene, curvato sugli Champs- Elysees a far eco a Le Lido. Un luogo-non luogo, vedo-non vedo, che Monsieur de Sade aveva pensato come rifugio dei disperati. "Non c'è nulla che liquori e libidine non possano curare", diceva. Ed erano in molti a credere alle sue parole, a suon di franchi. Non tutti possono concedersi il lusso di screditare le false speranze, in fondo. Questo, la piccola Sophie lo sapeva bene. Lei, che aveva trascorso la vita nell'orfanotrofio di Filù, un mercatuccio di abbagli ed illusioni, non faticava a capire cosa portasse la gente al Cabaret. Le era tutto chiaro, familiare. In quel posto, Sophie riusciva a sentirsi a casa. Per la prima volta in vita sua.